Tredici di Febbraio del millenovecentonovantadue, quasi mezzanotte, ho sedici fottutissimi anni.
Mia madre sta piangendo da non so più quante ore. Mio padre non c’è più, è andato via da quasi sei mesi e lei continua a piangere sperando che forse, da qualunque parte lui sia, possa sentirla e mandarla a fare in culo come avrebbe voluto fare da così tanto tempo prima che lasciasse questa casa e questa città.
O almeno credo le cose siano andate così, nessuno vuole dirmi la verità.
Mia madre piange lacrime di solitudine ed io guardo il vuoto mentre “Hunger Strike” mi anestetizza l’anima.
Il telefono squilla, sei tu a chiedermi come poter rintracciare il ragazzo che suonava nello studio accanto a quello in cui mio cugino provava con la sua band, quello coi capelli strani e lo sguardo perennemente allucinato.
Il ragazzo che non sa dire due parole di fila senza un paio di “cioè” in mezzo.
Il ragazzo che non mi saluta mai, nemmeno se gli tengo aperta la porta della sala prove per evitare che sbatta per l’ennesima volta la sua chitarra, quella che non sa suonare neanche di striscio, contro l’infisso in legno infracidito, rovinando una di quelle Telecaster che non potrò mai e poi mai permettermi in questa e in chissà quante vite ancora. Domani è San Valentino, non ho un padre, ho una madre in lacrime e dulcis in fundo, te che mi chiedi come rintracciare quel coglione.
Non so che dirti, ti scrivo sperando che tu non legga mai e, in quel malaugurato caso, che non mi risponda.
Rimango qui da solo, assieme a “Say Hello 2 Heaven” e “Times of Trouble“ e penso che in fondo non è così poco.
È solo il Tredici Febbraio del millenovecentonovantadue, ho sedici anni, una madre in lacrime, un padre disperso, un amore in frantumi e la parvenza di una vita davanti.
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