A cura di Serena Coletti
C’è una frase di Paul Klee che viene usata spesso per spiegare le sue opere e più in generale l’idea che si cela dietro l’arte non figurativa: “Art does not reproduce the visible but makes visible”. Lo scopo dell’arte non è riprodurre ciò che vediamo, ma permetterci di vedere.
Io credo che questa citazione spieghi molto bene anche il motivo per cui da sempre l’arte è così invisa agli occhi dei regimi. Perché sa essere provocatoria, costringe le persone a tenere occhi e orecchie ben aperti, a non voltare lo sguardo. E poi c’è un altro fattore importante: arriva ovunque. Al giorno d’oggi, grazie ad internet, un musicista può far sentire la propria voce in tutto il mondo. Ma non è finita qui, la musica non si accontenta di arrivare nelle case, la musica spinge le persone a uscire dai propri appartamenti per incontrarsi, per riunirsi. Può esistere qualcosa di più spaventoso per un dittatore, per chi cerca di esercitare il potere sulle vite umane attraverso il controllo?
Il Grup Yorum è un gruppo folk rock, nato in Turchia, dichiaratamente antifascista, che porta avanti nei suoi testi le idee del socialismo. In trenta anni di attività, dal 1985 al 2015, hanno organizzato concerti ai quali partecipavano centinaia di migliaia di persone. Poi lo stop. Nel 2014 Erdogan vince le elezioni presidenziali e nel 2016 in Turchia si verifica un tentato colpo di stato. Da lì parte una repressione durissima, che con la scusa del terrorismo mira a spegnere la voce di chiunque non si pronto a inchinarsi di fronte a quello che, a tutti gli effetti, si configura sempre di più come un regime. Tra queste persone ci sono anche loro, i Grup Yorum, che vengono arrestati con l’accusa di vilipendio alle istituzioni e appartenenza a un’organizzazione terroristica.
I musicisti decidono così di intraprendere uno sciopero della fame, promettendo di interromperlo solo quando al loro gruppo sarà permesso nuovamente di organizzare un concerto. Ad aprile, rispettivamente dopo 228 e 288 giorni senza mangiare, muoiono Helin Bölek e Mustafa Koçak. Avevano 28 anni. La protesta però continua, a portarla avanti è un altro membro del gruppo: İbrahim Gökçek. Il 4 maggio arriva per lui il ricovero. Il giorno successivo il governo revoca il divieto a fare concerti per i Grup Yorum. Alla fine hanno vinto, ma è troppo tardi. Dopo 323 giorni di digiuno Gökçek è troppo debole, e così giovedì 7 maggio arriva la notizia della sua morte.
Una delle ultime cose che ho fatto prima del lockdown è stato andare al cinema per vedere Alla Mia Piccola Sama, il documentario di Waad Al-Khateab. La regista siriana ha raccolto in questa videolettera 5 anni della sua vita. Anni nei quali lei, da giovane studentessa di economia ad Aleppo, partecipa alle proteste nate sull’onda delle primavere arabe, che si trasformeranno rapidamente in una guerra civile. La Sama del titolo è la figlia di Waad, nata proprio in questi anni, sotto i bombardamenti, alla quale la regista si rivolge continuamente, cercando il suo perdono per aver deciso di mettere al mondo una bambina in quella situazione.
Alla Mia Piccola Sama è un documentario forte, impietoso, che arriva a toccare fisicamente il pubblico. E’ impressionante vedere quanto rapidamente delle vite possano essere sconvolte, assistere con i propri occhi alla follia della guerra, ma ciò che davvero fa riflettere è la fiducia che i giovani siriani riponevano nel resto del mondo, nelle grandi democrazie. Il marito della regista, che ha aperto un ospedale per accogliere le decine di feriti che arrivano dopo ogni bombardamento, continua a collegarsi con giornalisti e televisioni occidentali per raccontare la loro storia. Inutile dirlo, questa fiducia è stata puntualmente delusa. Noi ci siamo preoccupati, forse anche indignati, ma non abbiamo fatto niente. Abbiamo spento le tv e abbiamo dimenticato. Il momento in cui realizzano ciò è stato per me il più difficile da digerire dell’intero documentario, più dei corpi mutilati, più dei giovani in fin di vita.
“The Syrian regime and its allies have put us under siege.
Aleppo. My city.
We never thought the world would let this happen.
I keep filming; it gives me a reason to be here. It makes the nightmares feel worthwhile.”
Leggendo la notizia della morte di Ibrahim Gokcek, il membro del Grup Yorum, arrivata dopo quasi un anno di sciopero della fame, non posso smettere di pensare al nostro colpevole silenzio. Queste storie ci ricordano che la democrazia non è un articolo da archiviare tra faldoni impolverati, ma un organo vivo e pulsante. C’è bisogno costante della nostra azione affinché questo organo continui a vivere e a funzionare. Ibrahim, Helin, Mustafa, hanno portato avanti la loro lotta fino all’ultimo. Sono morti credendo in un’idea. Le idee, si sa, non muoiono, ma continuano a camminare sulle gambe di altri uomini. Quegli altri uomini siamo noi, noi siamo vivi e a noi spetta portarle avanti.
Qui potete leggere le ultime parole di Ibrahim Gokcek.
di +o- POP